Storie di tutte le cose visibili e invisibili



venerdì 28 settembre 2012

Impressioni di Settembre




Settembre è il mese peggiore per gli ipocondriaci.
E per le malattie di origine psicosomatica. Cioè quasi tutte.
Mi domando come cazzo faccia il mio stomaco a sapere che è Settembre.

Io adoro i bambini. Ma detesto i figli.
L’illuminazione mi è venuta pochi giorni fa.
Il sentimento peraltro è reciproco. In entrambi i casi.

Non ne posso più di cake designer, pasta di zucchero, cupcakes e macarons.
Son tanto bellini da vedere, ma insomma dai, li avete mai mangiati? Fanno abbastanza cacare.

Ho sviluppato un’inevitabile quanto intempestiva allergia agli ospedali. Qualche sera fa, dopo una settimana di varia e avariata frequentazione, ho deciso di andare a sfogarmi in palestra per dimenticarli.
E ci ho trovato un’ambulanza perché un tizio si era spaccato un ginocchio.
Alla faccia del karma pesante.

Dunque, ribadisco, mangiare le stesse cose di prima, diminuendo le quantità, non fa  dimagrire.
Quello si chiama “mangiare normale”.
Le diete ipocaloriche che saziano non sono mai esistite.

A Settembre bisogna vestirsi a strati, credo di saperlo da quando andavo alle elementari.
Se ti metti il golf di cachemire al mattino, sotto devi averci una camicia perché poi fa caldo.
Spruzzarsi continuamente il deodorante in ufficio e attaccare l’aria condizionata a palla perché hai sbagliato a vestirti, non è un comportamento moralmente accettabile. 

Mio padre peggiora. Al momento nessun medico si è degnato di ipotizzare una diagnosi, limitandosi a rimbalzarci tra un esame e l’altro, suggerendo terapie, per confutarle subito dopo.
Ai momenti drammatici che potete immaginare, alterno per mera sopravvivenza giornate di fuga nella vita “normale”.
Fatta di tanto lavoro, lavatrici, palestra saltata per emergenze al lavoro, cene saltate e ripianificate con le amiche e aperitivi improvvisati, spesa al supermercato, lavandini che perdono e lavatrici che si rompono.
E sono felice.

Straordinariamente felice, come mai da quando ho una vita cosciente e consapevole, ovvero passati  i 30 anni.
Amo il lavoro lo stress i colleghi lunatici il frigo vuoto il frigo pieno l’armadio in disordine.
Amo la vita. Nel momento stesso in cui non mi è concesso viverla.


giovedì 20 settembre 2012

Agosto figli vostri non vi conosco

Nel corso delle prime due settimane di Agosto (e anche prima e anche dopo, se è per questo) la temperatura all’interno del mio mini appartamento ha sfiorato serenamente i 40 gradi. Il ventilatore e il pinguinodelonghi li ho portati a casa dei miei, per ovvi motivi di priorità sanitaria.

Ho già avuto modo di spiegare vagamente quello che ho passato nel corso degli ultimi due mesi.
Le mie giornate angoscianti finivano all’ora di cena, quando misericordiosamente quel Sant’uomo del mio fidanzato mi faceva trovare in tavola il mio unico pasto, che tentavo di inghiottire prima di svenire mediamente non più tardi delle 22:00.
A quel punto, andare a dormire a casa mia sarebbe stato impensabile.
Inoltre, per la prima (e forse unica) volta in vita mia, dormire da sola mi faceva paura e aumentava il mio panico.

Si da il caso che nelle prime due settimane di Agosto ci fossero anche i suoi figli.
Loro mi conoscono formalmente da 2 anni, il rapporto che mi lega al loro padre è inequivocabile, ma non abbiamo mai alcun tipo di contatto fisico/affettuoso in loro presenza.
E comunque, non avevo mai dormito in quella casa quando ci sono loro.

L’emergenza del momento e le sinapsi assolutamente inaffidabili mi hanno impedito di prendere in considerazione il fatto che forse i ragazzi avrebbero dovuto essere preparati (dal padre, non certo da me) sul fatto che io mi sarei fermata a dormire.

Ma sapete che c’è?
La vita è dura.
Ed io sono stanca di preoccuparmi per tutti quelli che non hanno con me alcun legame biologico.
Forse l’approccio non sarà stato da manuale e la mia psicologa - dall’attico in centro pagato con le parcelle che ho versato nell’arco di 10 anni – avrebbe avuto senz’altro qualcosa da ridire.

Non sembrano particolarmente turbati, e se lo sono, mi viene da pensare che è ora che se ne facciano una ragione.
Pure a me turbano i fine settimana rognosi, con le facce lunghe, i silenzi, le lacrime inutili, le astenìe sul divano.

Sappiate che i figli – lontani dalle loro madri – sono quasi sempre insopportabili.

martedì 18 settembre 2012

Camera con vista

Ad Agosto avevo giurato a me stessa “mi rifarò durante le vacanze di Natale, costi quel che costi”.
Perché svernare dopo avere passato un’estate come la mia, la vedo dura.
Ma siccome di sventura si può sempre peggiorare, pare che la luce in fondo al tunnel sia sempre più lontana. Per farla breve, mio padre dovrà essere operato di nuovo.

Siccome la cosa che mi viene meglio è prenotare ristoranti e fine settimana, mi sono applicata, e dopo un rassicurante giro ne ilmeteo.it, ho prenotato un fine settimana.

Destinazione lago.
Scegliendo con cura.

Un hotel piccolo, appena ristrutturato, sulla piazza del paese, in zona pedonale, e pazienza se la macchina stava a 500 metri.
Aprire il balconcino e vedere questo, non ha prezzo:


Due giorni intensi, assolati, pieni di luce e di brezza e di confini nuovi, di coppe gelato e colazioni e pranzi sotto il sole, con l’acqua a pochi passi, e tanta gente ma non troppa.
Coppie di Tedeschi anzianissimi che si tengono per mano, gruppi di amiche Inglesi con il capello di paglia, che sembravano uscite da un film di James Ivory, famiglie con i bambini liberi di scorrazzare nel lungolago pedonale, lontani dall’afa e caldo e sabbia e nervoso delle spiagge (infatti al lago i bambini non piangono) e tanti cani e biciclette e coppie giovani che si baciano sulle panchine.

E ieri pomeriggio, mentre caricavo il mio trolley rosa in macchina, mi veniva da piangere, e mi sembrava di essere stata lì tantissimo, e non volevo tornare a casa, come non mi capitava da anni, e mi sarei fermata lì ancora un po’, a guardare le barchette dei pescatori, fissando quest’acqua senza onde, gli schizzi delle fontane, e quel sole di fine estate che tramonta troppo presto, ma meglio goderselo, finché c’è.






















venerdì 14 settembre 2012

Homeschooling, ovvero: a cosa serve il resto del mondo, se ci sono i genitori?

Foto estratta dal web

Ultimamente mi era capitato di incappare in qualche blog gestito da mamme che si affidano all’homeschooling, e non ci avevo capito granchè, a dire il vero.
Appena ho letto di cartelloni sensoriali sono fuggita senza documentarmi ulteriormente. Che la vita è già difficile.

Nell’ultimo numero di Vanity Fair ho letto attentamente un servizio che riguarda proprio questo tema, e ho scoperto con un po’ di sgomento che lo Stato Italiano prevede l’obbligo all’istruzione, non alla frequenza scolastica.
I genitori possono decidere di tenere i figli a casa e provvedere personalmente alla loro formazione, probabilmente con considerazioni specifiche a seconda del caso e con controlli che, onestamente, non conosco.
Si chiama – appunto – homeschooling, o educazione parentale, o controscuola, o altre robe così.
Non mi sono documentata granché, quindi la polemica scatterà inevitabilmente, ma tant’è. Speriamo non mi quereli nessuno perché questi mi fanno un po’ paura, in effetti.
A me piace sputare sentenze anche su quello che conosco poco, continuo a farlo perché … sono piuttosto stronza, effettivamente.

Sono perplessa di fronte al delirio di onnipotenza di alcuni genitori.
Questi qui sarebbero quindi convinti di essere fonte sufficiente ed insindacabile di apprendimento per i loro figli.
Oltre ad allontanare il più possibile l’inevitabile momento nel quale un bambino dovrebbe iniziare a staccarsi dalle amorevoli braccia materne, trovando la propria identità e indipendenza in tutti quei piccoli e grandi riti della vita. Ecco questo momento non dovrebbe mica avvenire intorno ai 30 anni … un po’ prima, secondo me.

Ho letto di bambini che non vogliono andare a scuola perché seduti tante ore si annoiano e sono irrequieti. Poverini. Pure io.
Che non capiscono le parole dell’insegnante perché hanno dei ritardi nell’apprendimento.
Che preferiscono (ma va?) stare a casa con la mamma.
Di programmi ministeriali troppo rigidi da seguire, classi troppo affollate, materie poco interessanti, compagni di classe troppo esotici, eccetera.

A parte il fatto che insegnare le tabelline e spiegare che le mucche fanno il latte, ecco,  temo non sia sufficiente: avete mai avuto a che fare con i compiti per casa di un bambino di 6/7 anni? Ecco, auguri …
La maggior parte degli adulti che conosco ignora la differenza tra Austria e Australia, figuriamoci l’esistenza dei congiuntivi.
Ieri sera alla TV ho sentito una velina ripetere almeno 10 volte “help we”, per dire “aiutateci”. Povera stella. Forse ha fatto l’homeschooling pure lei.

Comunque, io credo che andare a scuola non significhi solo imparare a leggere e scrivere.
Significa imparare a stare seduti tante ore.
Che mamma e papà non sono le uniche fonti del conoscere. Anzi, è quasi sempre consigliabile provvedere ispirandosi ad altri …
Significa imparare a convivere e condividere.
Imparare che si è veloci a fare qualcosa, e allora bisogna aiutare chi è più lento.
Che si è più lenti a fare qualcos’altro, e allora bisogna chiedere aiuto.
E non sempre qualcuno ti aiuta, ma la vita è così.
Significa imparare a stare attenti, anche quando non si ha voglia.
Imparare che c’è un amico speciale, che ce lo ricorderemo tutta la vita.
E c’è qualcuno invece che non ci piace, ma ce lo ricorderemo tutta la vita pure lui.

E se la scuola traballa, perché non ci sono fondi, gli insegnanti sono mal pagati o scontenti o insufficienti, e non ci sono insegnanti di sostegno per i bambini con difficoltà, ecco tutto questo è gravissimo, perché la salute e l’istruzione dovrebbero essere garantite a TUTTI e GRATUITAMENTE !!!
Sarà demagogia ma ci credo fermamente !!

Ma la soluzione non è quella di creare micro universi pseudo perfetti per i nostri figli, mettendoli sotto una bolla di vetro colorato che prima o poi dovranno rompere da soli, facendosi male.

Perché il compito dei genitori è – prima di tutto – insegnare ai figli a vivere.
Vivere, è quella cosa che si impara sul campo.
Sennò, che vita è?

martedì 11 settembre 2012

Vorrei incontrarti tra cent'anni


Capita che dopo tre anni (ma son passati tre anni? E perché non ce ne siamo accorti? ah sì, c’era mio padre che rischiava la vita … mi ero distratta un attimo …) non è che si sentano ancora le farfalle nella pancia.
Perché l’amore è fatto di gioia, ma anche di noia, diceva Finardi.
E potrei disquisire per ore sull’amore adulto versus “quelli che cercano l’emozione”, e in realtà cercano solo il loro riflesso narciso in uno specchio minuscolo.

Ma poi capita che ci si incontra per caso (amore sono qui davanti al tuo ufficio, mi porti le chiavi di casa tua, che ti vado a falciare l’erba del prato?) e ci si vede da lontano e ci si accorge che le farfalle non se ne sono mai andate.

E allora penso che, anche se lontano dai batticuori tormentati, dalla passione che toglie la fame e il sonno, il mio amore adulto è bellissimo e limpido come aria di montagna, e mi rende facile vivere, anche quando tutto è complicato.
Perché l’amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore. Diceva sempre Finardi.

E allora vi dedico queste righe, che riassumono il mio concetto dell’amore.


Vedere il lato bello, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di questo abbraccio e non chiedere altro perché la vita è solo sua e per quanto tu voglia, per quanto ti faccia impazzire, non gliela cambierai in tuo favore.
Fidarsi del suo abbraccio, della sua pelle contro la tua, questo ti deve essere sufficiente, lo vedrai andare via tante volte e poi una volta sarà l'ultima, ma tu dici, stasera, adesso, non è già l'ultima volta?
Vedere il lato bello, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di quando ti cerca in mezzo alla folla, fidarsi del suo addio, avere più fiducia nel tuo amore che non gli cambierà la vita, ma che non dannerà la tua, perché se tu lo ami, e se soffri e se vai fuori di testa, questi sono problemi solo tuoi.
Fidarsi dei suoi baci, della sua pelle quando sta con la tua pelle.
L'amore è niente di più.
Sei tu che confondi l'amore con la vita.
Pier Vittorio Tondelli

giovedì 6 settembre 2012

L'orlo del vaso


Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato.
Il momento in cui avrei realizzato che un certo tipo di fatica non serve a niente.
Che dopo tante lacrime versate, notti insonni, attacchi di panico, impegno e dedizione fisica e mentale per tenere tutto insieme in modo che abbia un senso, la parola d’ordine rimane “hai sbagliato”.

E quindi capita che non ce la fai veramente più, molto più di quando pensavi di non farcela più.
E devi scappare dall’ufficio e andare da qualche parte a piangere. E spegni la radio in macchina e il telefono e non sai dove stai andando.
E ti ritrovi in luoghi che nessuno potrebbe mai immaginare.
Sentendoti fuori posto, comunque e dovunque.

Cambiare, si può.
E da oggi, si cambia.
A costo di snaturarsi.
Perché soffrire sbagliando, è peggio che soffrire avendo ragione.
Soprattutto se sei convinta di avere ragione.

Quindi tanto vale tirare su un muro.
La maggior parte della gente riesce a farlo, perché io no?
Dove c'è scritto "si deve?".
Si deve scegliere, e io scelgo di smettere.

Seriamente, è l’obiettivo che mi pongo d’ora in poi.
D’ora in poi, conto solo io.
Ero già stronza, voglio diventare cinica ed egoista.

Gli altri, se vogliono qualcosa, me lo devono chiedere.
In modo che non siano MAI autorizzati a dirmi che quello che gli ho dato era sbagliato.